Per noi, questa mostra è molto più di un’esposizione. È un tempo sospeso, in cui ritroviamo Elisabetta viva tra le sue opere. È il suo sguardo, la sua mano, la sua voce silenziosa che ci accompagna ancora.
Elisabetta non ha mai cercato clamore, eppure chiunque l’abbia conosciuta sa quanto fosse intensa la sua dedizione all’arte, quanto studio e quanta ricerca ci fossero dietro ogni gesto. E chi scopre oggi le sue incisioni o i suoi dipinti ne percepisce subito la profondità: non si tratta solo di bellezza, ma di un modo speciale di stare nel mondo.
Come famiglia, e oggi anche come Fondazione, ci sentiamo custodi di questa visione. Ci guida il desiderio di condividerla, di farla sbocciare ancora – come una rosa che continua ad aprirsi.
Siamo riconoscenti a Gianfranco Schialvino, che ha saputo leggere Elisabetta con sensibilità rara, alla Fondazione UniversiCà, che ha aperto le sue porte con generosità, e a tutti coloro che, in modi diversi, hanno reso possibile questo incontro.
Grazie per essere qui, in questo tempo che è anche memoria, dialogo, rinascita.
La famiglia Viarengo

Testo critico di Gianfranco Schialvino
La rosa s’aperse
Non è il “fiore subitaneo” dannunziano, che pure ne è stato l’impulso, il motivo di un pretestuoso incipitletterario, piuttosto la “rosa fresca aulentissima” di Cielo d’Alcamo, perché come la pagina miniata di un “incunabulo di nostra gente” l’avventura artistica di Elisabetta Viarengo Miniotti offre e richiede due metodi di lettura: quello dell’ammirazione per la sua perizia tecnica, che le consentiva di passare con disinvoltura dai pennelli agli acidi, dalle tele alla carta, dal bistro ai colori; e quello per i rischi che un artista ama ogni volta affrontare nella ricerca di soggetti nuovi, mai crogiolandosi su quel che ha già raggiunto in perfezione bensì gettandosi a capofitto in sempre diverse avventure, e intestardendosi a raggiungere la meta che si è proposta, una sfida nuova ogni giorno. Mi piace quindi oggi esaltare, a corredo di una esaustiva rassegna della sua esperienza creativa, le impressioni e le emozioni, che sa regalare chi ha avuto in sorte il dono di dipingere in modo da far vibrare i buzzi di chi guarda e la cui dote è degna di essere racchiusa in un unico termine: “armonia”. Quella di un fiore che sboccia, si apre e si rivela, espandendo colore e profumo e, a chi guarda, sa arrivare d’impulso al cuore.

È necessario, per comprendere la peculiarità di questa virtù rara, staccarsi dall’ambiente urbano civilizzato e artefatto del ventunesimo secolo e riferirci al vecchio mondo, dove le luci erano ancora torce infuocate e le automobili carrozze, e pensare a cosa talvolta sopraggiungesse d’improvviso nei momenti più impensati a dare al viaggiatore un segnale di avvertimento, ora positivo ora di minaccia, che qualcosa insomma stesse per accadere. Questo indizio era l’anomalia, l’assenza imprevista di conformità e di normalità. Che si percepisce nell’aria: nell’odore, nel colore, nel suono, nella vibrazione addirittura delle onde cerebrali. L’istinto avverte la mutazione e vi si adegua, per rifuggire il rischio o per acchiappare la preda.

Così davanti a un quadro.
Puoi sperare (capita una volta nella vita) di incappare in un Vermeer che ti schianta a terra con la sindrome di Stendhal, ma più spesso di provare un qualsiasi minimo fastidio perché senti che nei quadri che hai intorno c’è qualcosa che non va. E chi ha il dono di sentirsi venir l’orticaria davanti a un paesaggio, a un concerto, a un vernissage quando finalmente incappa davanti a un’opera di quelle che ti entrano dentro e che ti liberano la mente da ogni preoccupazione, allentandone le difese e occupandola con la loro perfezione, allora sì che prova quella incommensurabile sensazione di grazia e di levità che soltanto l’emozione può dare.

Nei quadri di Elisabetta Viarengo Miniotti c’è l’armonia. Che sia quella dei tronchi albini delle betulle nel bosco, dei riflessi dell’iride sui petali dei fiori nella pienezza dell’estate, della polvere di giaggiolo sulle ali di una farfalla, delle membra che muove sincrone un corpo virile che nuota, delle onde in una rada coi raggi di sole a barbaglio, nulla cambia: quando li osservi la mente si posa tranquilla insieme allo sguardo sulle linee, i volumi e le campiture che concorrono a definire l’equilibrio. E in questo ambito i ritmi possono variare in funzione del soggetto, del momento, dell’atmosfera, dell’umore, dell’ambiente. La pennellata decide quando essere fluida, scorrevole, modulata, e quando vibrare forte, a timpano, gong addirittura, in un crescendo di sensazioni, di sapori, di spezie. Così il segno inciso che dalla carezza passa a ferire in violenze astutamente controllate che mai tradiscono la finzione, tanto la maniera del verosimile è stata assimilata dall’artista che lascia cadere l’ammicco nell’angolo del foglio, calibrando il giusto peso degli ingredienti della formula conquistata e collaudata, ormai sicura.
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La vicenda pittorica di Elisabetta Viarengo Miniotti, nell’incontro della sontuosità del colore con la severità delle tecniche incisorie, lascia emergere un particolare elemento strutturale di lettura della sua vicenda artistica. Ci si avverte un andamento circolare dove, ad una indagine lieve ed estetizzante, nell’unitario divenire della sua personalità artistica accade di riconoscere una dinamica spazio-temporale, ricorrente ed irreversibile. Molte appaiono in effetti, insieme alle permanenze iconiche, le ricorrenze stilistiche ed i sopravvenienti ritorni, accanto a periodiche occasioni di voli liberi, nella puntigliosa appartenenza ad un’avventura culturale sempre aggiornata. Elisabetta fonda le ragioni del proprio produrre in un privato emotivo ed immaginativo, che fonda in sensi panici le motivazioni di una pronunciata, viscerale ed austera indagine sulla natura, nei termini prossimi di una ricerca che era in voga agli inizi del suo percorso artistico e che in una sincretica formula fu battezzata “astratto-concreto”. Sostanzialmente appartata in una istintiva diffidenza intellettuale e psicologica al susseguirsi di eventi effimeri e mode culturali, il suo modus operandi si è basato sulla convinta fiducia nella costruzione di un personalissimo universo di spazialità cromatica, che ha esaltato in un pragmatico entusiasmo creativo e con la piena partecipazione dei sensi il colore, l’elemento archetipo del “fare pittura”.

Il risultato di questa paziente alchimia, di ansia d’identità, di immaginario e vissuto, di pratica artigiana e di attivismo inventivo, sedimentata nel rapporto fisico con l’ambiente e in una precisa matrice poetica, si concretizza in un’immagine assolutamente pittorica, in un personale impianto cromatico che compatta la scena, in consistenti e suggestionanti motivazioni iconiche.
Elisabetta è pittore antico, di tempi lenti, sostanzialmente legata ai ritmati ritorni ciclici della natura; e autarchica, orgogliosa della propria diversità e di una conquistata autonomia. In lei il colore è canto, una musica che permea i sensi e risolve l’immersione nella luce della tavolozza: il concerto dei gialli dorati profuma di grano, l’azzurro che culla la nuotatrice sa di salmastro, la nebbia invischia i pampini in pungenti umidori e le betulle stillano rugiada e brillano neve. È un colore palpitante di vita, gonfio di abbagli, la materia georgica della sua dimensione emotiva: nella terra affonda spighe e fiori, nella liquidità le ondine sinuose, nell’aerino nubi e rami e farfalle. Non avanza simbolismi gratuiti, ma emozioni rivissute, che propone nella reinvenzione del creato con un’intensa capacità evocativa di sensualità impulsive, nell’affascinante alternanza, esaltante e macerante, di emotività contingenti, nell’interrogativo inesauribile della vita.

L’accezione naturalistica si affastella di segni, cromaticamente omogenei, che animano le figure dall’interno, legati in un fitto accostamento e qualche viluppo. E talvolta il groviglio si dirada, scompone le sottolineature della lacerazione interiore, l’allegoria si sgravida e le linee si dispiegano nello spazio, diradando fino ad originare la macchia per immergersi in una differente seppur parallela formulazione linguistica, privilegiando il piano alla traccia. Talaltra il tratto prevale, quasi fosse inciso nella materia, in un intrico che scandaglia, coinvolgendo nelle tensioni emotiva e passionale l’estetica formale della pagina. Ciò accade soprattutto nella grafica, dove il gesto diviene metamorfico graffio, lacerazione e ferita, in scattanti diramazioni e sovrapposizione di intrecci, in una sintesi che affida l’esito ai pastelli ed ancor più al ferro che imprigiona la lastra, ed il succedaneo foglio, in un tatuaggio che accantona ogni aspetto estetizzante per rinsaldare, nell’assenza del colore, l’impianto strutturale ed espressivo.
La strada di Elisabetta ci conduce alla costruzione plastica di una emozione visiva. Non è certo da nascondere quanto l’avventura della memoria e del sentimento, la presenza dell’esistenza umana, la coscienza dell’anima, invadano e puntualizzino la sua ipotesi stilistica. L’accrescano anzi di poesia.
Gianfranco Schialvino
Testo di Anna Belfiore
A far da sentinella al lungo corridoio che corre per ben sessanta metri al piano terra del Polo museale UniversiCà di Druogno, c’è un vecchio, grande torchio del 1840. Da alcuni anni la sua presenza è annunciata da una serie di pietre litografiche, immagini, filmati, con gli oggetti utili al lavoro dell’incisore. Un mestiere raccontato nella mostra “Geo d’Etica” sulla geografia e la cartografia che si snoda tra le diverse sale dell’Ala Est dell’ex Colonia montana.
Fa un tutt’uno con il museo sulla Civiltà Alpina che si trova al primo piano della struttura e con il paesaggio di boschi e vette che si offre dalle grandi vetrate.
Quest’anno il nostro torchio sarà testimone di una nuova “improvvisa” fioritura, quella della mostra antologica dedicata alle opere di Elisabetta Viarengo Miniotti. Insinuandosi nel nostro racconto sulla nascita e sviluppo della cartografia, ecco “La Rosa s’aperse”, che rimanda alla citazione “un fiore s’aperse” dell’Oleandro dall’Alcyone di D’Annunzio per una ideale fusione che la quarantina di incisioni (e la trentina di dipinti) invitano a realizzare con la natura… e con la montagna.
Del resto il percorso dell’artista che UniversiCà ospita nell’estate, con la mostra curata da Gianfranco Schialvino, affonda le proprie radici negli aspetti della natura e nelle piccole cose del quotidiano, con la sapiente attenzione di chi pone la tecnica al servizio di una dimensione poetica.
Una rivelazione a tutto tondo, quindi, simile a un’improvvisa fioritura, nel suo “subitaneo” aprirsi, che ben si inserisce nella filosofia della nostra Fondazione la quale nelle proprie sedi museali (oltre a Druogno, anche Museo Meina sul Lago Maggiore e Castello di Proh sulle Colline Novaresi) ama queste commistioni tra ambiente, storia, arte.
Anna Belfiore
presidente
Fondazione UniversiCà