1998 – Il Foglio e la Pagina

Antologica di Incisioni

Palazzo Lomellini

Carmagnola

Testo di Franco Fanelli

Verso la fine degli anni Settanta Elisabetta Viarengo Miniotti, in fase di primo contatto con le tecniche calcografiche, realizzava un’ incisione ora opportunamente recuperata come prologo a questa mostra. Si tratta di una figura intagliata a maniera nera e cio che sin da allora mi aveva colpito di quel foglio stampato nell’ allora galleria Arcipelago di via Bonafus a Torino, era il valore assegnato al rispetto etimologico della tecnica, laddove il nero non era di maniera ma assoluto, talchè mi parve che, in quella lastra, l’autrice attribuisse più valore alla misteriosa subliminale tessitura del fondo intonso che alla figura ritagliata in quel nero. A distanza di anni mi rendo conto che in fondo tutto il successivo iter della Miniotti era gia inglobato in quella trama. Se il visitatore necessita di una conferma diretta in quanto vado sostenendo, guardi una sintomatica recrudescenza nell’incisione dedicata, tempo dopo, a un portone di piazza Vittorio, con quell’artigliata nerissima del berceau sulla destra che doveva lasciar emergere una protezione architettonica e che invece, nel suo velluto, ha ipnotizzato l’incisore, che, proprio non se l’e sentita di violare la purezza di quella tenebra, frutto d’ infiniti orditi e trame intessuti dal ferro dentato. Ma questo, appunto, non e che un indizio. Noi dobbiamo risalire alle prove e quelle, spiegare su che cosa si fondino.

Il taglio antologico prescelto per questa occasione consente del resto un’anamnesi totale. Intanto non e possibile non cogliere un percorso di maturazione che ha una sua nettissima lesura all’inizio degli anni Novanta, al termine di una lunga e paziente indagine su quanto insegnava la scuola torinese notoriamente molto agguerrita in tema di lastre, aghi e bulini. La Miniotti, comunque, si volge sin dall’inizio, con una certa decisione; verso il cote diciamo cosi calandriano in questa citta che per irrepetibile periodo ha registrato la straordinaria compresenza di quelle che i manuali definiscono le due anime dell’incisione italiana moderna (bertolini il “materico” e Morandi il “segnico”) nell’ attivita dello stesso Calandri e di Francesco Franco. E’ gia stato scritto e detto, peraltro, e soprattutto a proposito dei due artisti torinesi, quanto e perche i termini di quella presunta bipolarita siano inesatti prima ancora che angusti, ed e, fra l’altro, proprio l’opera di alcuni successori, tra i quali la Miniotti, a dimostrarlo indirettamente e vedremo come. A me pare, anzitutto, che piu dello stilema, nella fattispecie quello che decorre da Calandri a Soffiantino, alla nostra autrice interessasse la strategia operativa messa in atto dai due sulla lastra. e soprattutto, ho il fortissimo sospetto che la Miniotti, in quel modus operandi, innestato poi sulla razionalita compositiva franchiana, e fatto di continue e rinnovative sollecitazioni nelle viscere della matrice, e talvolta di repentini diversivi strategici, di attacchi in profondita e pronte battute in ritirata, di squarci in complicita con l’irruenza del mordente e di febbrili suture con raschietto e brunitoio, di segni slabbrati dall’acquaforte e di carezze all’acquatinta, di brucianti morsure a lastra aperta e di tamponature con l’unguento della vernice molle, insomma penso che in questo processuale ribollire d’azioni e di procedimenti la Miniotti cercasse anzitutto d’impadronirsi d’uno spettro tecnico il piu vasto possibile. Per poter conseguire questo obbiettivo, ha sondato quasi un decennio le infinite combinazioni ed equazioni intagliabili su quel millimetro di spessore offerto dalla lastra. E intanto mentre fa suo un esteso repertorio, la Miniotti “studia composizione”, e snoda il polso (una ginnastica anche mentale, per vincere le ultime inibizioni circa la virginale freddezza del metallo), in rapidi appunti en plein air. In questa fase, altro dato importantissimo, inizia a lavorare per cicli e serie assumendo come pretesto forme umilissime e modulari ma capaci di impegnarla su probanti ritmi compositivi, dalla forma iterata di un barattolo alla grafica cangiante tra pieghe di un frammento di tovaglia. Parallelamente, secondo ricorrenti interludi che l’artista ha voluto rispettare anche nella topografia di questa mostra, piccole matrici fungono da “provette” sperimentali per ulteriori alchimie. Che il bagaglio tecnico-compositivo alfine messo a punto in questa lunghissima fase di rincorsa non sia tramutato in imbarazzante zavorra ma in potentissimo propellente per un decollo in verticale, stanno a dimostrare le serie ultime. La pelle delle betulle, alberi tra i piu teneramente “cutanei”, diviene leit-motiv per mirabili grafie, sorta di pentagrammi solcati da nodi-note. Non “fogli” ma finalmente “pagine” palpitanti verso un’astrazione tumultuosa (nella matericita del segno) eppure armonica; ricorrono cortecce come paesaggi, cicatrici come orizzonti, vene come fulinee vettoriali inestricabili gabbie compositive. Il ciclo delle acque, sondato anche in chiave pittorica, apre un fronte ulteriormente mirato alla metamorfosi, con piu marcati accenti visionari: gli stessi che permeavano, si ricordera la maniera nera d’esordio. Il segno e alleggerito e piu che alle acquetinte, come pure manuale vorrebbe, le trasparenze vischiose sono affidate a nuove modalita ‘intreccio, aggrovigliato, piu frazionato, piu alitante. Acque come nidi di presenze paniche e metamorfiche, totalmente consustanziate nel gorgolio segnico. In queste due serie l’artista mette a registro definitivamente quanto emerso agli inizi, cioe la vocazione alla compenetrazione totale con un linguaggio, quello incisorio, complicato dal rovello tecnico eppure mai onomatopeicamente ibridato. Ma davvero non me la sento di concludere scrivendo della Miniotti come una pura scienziata del gesto, del segno e della materia; capira quel che voglio dire chi, tra i visitatori, sara capace di leggere la musica inscritta in quelle cortecce-spartiti, di ricostruire una forma dalle Ofelie e dagli spiriti tritonici tramutatesi in onde e correnti e di scovare cosi a dovere, con la stessa profondita dell’autrice, alla ricerca di nuovi alfabeti, in queste pagine gravide come un palinsesto.